Un garibaldino? Probabile, c'è un berretto rosso, c'è una camicia rossa, c'è un ritratto dell'Eroe dei Due Mondi.
Un combattente per una causa? Verosimile, c'è una camicia insanguinata, nessuno conserva una camicia insanguinata se non è un piccolo memento-monumento. Ci sono le foto di altri garibaldini: commilitoni? C'è anche un proiettile di fucile, usato.
Un tombeur de femmes? Possibile. C'è un ritratto di donna con un fiore in mano. C'è una giacca femminile di raso. Trofeo d'amore?
Un fotografo? Forse. Ci sono alcuni dagherrotipi. Paesaggi urbani opalini, ritratti, una natura morta. È lui quest'uomo col cilindro? E' il suo studio quello di cui si legge la réclame dipinta sul muro esterno di una casa, "Portrait au daguerreotype"?
Alla fine non ne sappiamo molto, concretamente, su V.P., quest'uomo di cui perfino il nome ci è oscurato da due misteriose iniziali.
Come in quei disegni da ricostruire unendo i puntini numerati, i vuoti da riempire sono più dei pieni. Eppure, come in quei giochini, una figura leggibile alal fine viene fuori.
Leggibile e credibile. Se ci fermassimo prima delle ultime semioscure stanze del Castello dei Pio a Carpi dove è allestita la mostra di Paolo Ventura, L'archivio ritrovato di V.P., potremmo comunque dire di aver conosciuto un uomo, attraverso i cimeli della sua vita che di lui ci sono rimasti. Inaspettatamente e casualmente ritrovati in una camera segreta e trascurata del Castello in cui dormirono per quasi due secoli, così dicono le spiegazioni.
Se Paolo Ventura fosse Joan Fontcuberta, il beffardo catalano maestro degli inganni di cui proprio in questi giorni, coincidenza, apre la grande antologica Camouflages alla Mep di Parigi (uscirà fra breve il volume relativo anche in Italia, da Contrasto), la mostra finirebbe prima di quelle ultime sale. Lasciando al visitatore la scelta imbarazzante tra credere o non credere a quel che gli è stato appena raccontato così autorevolmente, dal "curatore" ufficiale di una "mostra" ufficiale, piena di spiegazioni, pannelli, didascalie...
Paolo, invece, non è questo che vuole. Il suo obiettivo non è mettere sotto stress la tensione fra il nostro senso critico e la nostra vulnerabilità. E nelle sale finali i fatti svela il suo gioco, esponendo i modellini in legno e cartone dipinto che gli sono serviti per ricreare, e dagherrotipare fuori tempo, l'immaginario skyline di una Carpi di metà Ottocento.
E poi ci mostra cos'è un dagherrotipo, ci spiega come lo si può replicare anche oggi. Apre la cassetta dei trucchi del prestigiatore visuale. Perché lo fa?
Non credo che Ventura sia più indulgente di Fontcuberta, non credo che abbia voluto risparmiare ai suoi visitatori l'imbarazzo di chi, troppo tardi, capisce quanto è stato credulone (a me capitò molti anni fa, quando di Fontcuberta non sapevo nulla, e fino alla fine di una sua mostra rimasi convinto che avesse davvero recuperato straordinarie inedite prove da fotografo di Mirò e Picasso...).
L'obiettivo di Ventura, e non da oggi, è rendere permeabile, attraversabile con la fantasia, il confine fra finzione e realtà, confine che la fotografia confonde anziché definire. Non vuole metterci in guardia dalla finzione e dall'ambiguità: anzi, vuole farcene affascinare.
Mentre Fontcuberta, con le sue geniali invenzioni di erbari, bestiazi, biografie immaginarie e documentatissime ricostruzioni di eventi mai avvenuti, gioca con i limiti del nostro senso critico, per dimostrare quanto la fotografia assomigli al "bacio di Giuda": pericolosa, ipocrita, ma inevitabile, necessaria, escatologica.
Credo però che Ventura e Fontcuberta, battendo sentieri diversi, finiscano per metterci in mezzo allo stesso modo. Entrambi in fondo vogliono renderci consapevoli che si può navigare piacevolmente tra verità e finzione, tra sana diffidenza e ingenua fiducia, ma che bisogna sapere quel che si fa e quel che si guarda.
Anche perché la scelta solo apparentemente è ovvia, a volte quel confine non separa verità e falsità, ma pedanteria e poesia, banalità mediocre e dolce illusione.
Attraversare quel confine dunque dev'essere una scelta, consapevole, e non un caso distratto o una costrizione dovuta di potere, o di inganno.
"Del ver più bella è la menzogna" scriveva un nostro poeta barocco. Meravigliosa sintesi che include due affermazioni fondamentali: abbiamo la capacità di distinguere tra il vero e il falso, e abbiamo la libertà di scegliere fra l'uno e l'altro.
E qui mi permetto di non essere del tutto d'accordo con l'amico, eccellente curatore Luca Panaro quando conclude: "che sia finto, che sia vero, non è importante". Ecco, io invece penso che sia importante. Che sia necessario salvare, perfino quando si fa arte, almeno la consapevolezza che esiste un confine fra il vero e il falso, per quanto sia difficile riconoscere dove passa di preciso.
E penso che sia importante, ma forse è questo che Luca voleva dire, rivendicare la libertà di scegliere quando è giusto avventurarci da una parte o dall'altra di quel confine, e godere della consapevole falsità che è l'arte, perché è forse questa capacità unica, di gioire di cose non vere, che ci fa uomini.