Quantcast
Channel: Fotocrazia » vero/falso

Vero, verissimo, anzi possibile

$
0
0
Paolo Ventura L'archivio ritrovato di V.P ., 2013 courtesy Palazzo dei Pio di Carp

Paolo Ventura, L'archivio ritrovato di V.P., 2013, courtesy Palazzo dei Pio di Carpi

Un garibaldino? Probabile, c'è un berretto rosso, c'è una camicia rossa, c'è un ritratto dell'Eroe dei Due Mondi.

Un combattente per una causa? Verosimile, c'è una camicia insanguinata, nessuno conserva una camicia insanguinata se non è un piccolo memento-monumento. Ci sono le foto di altri garibaldini: commilitoni? C'è anche un proiettile di fucile, usato.

Un tombeur de femmes? Possibile. C'è un ritratto di donna con un fiore in mano. C'è una giacca femminile di raso. Trofeo d'amore?

Un fotografo? Forse. Ci sono alcuni dagherrotipi. Paesaggi urbani opalini, ritratti, una natura morta. È lui quest'uomo col cilindro? E' il suo studio quello di cui si legge la réclame dipinta sul muro esterno di una casa, "Portrait au daguerreotype"?

Alla fine non ne sappiamo molto, concretamente, su V.P., quest'uomo di cui perfino il nome ci è oscurato da  due misteriose iniziali.

Come in quei disegni da ricostruire unendo i puntini numerati, i vuoti da riempire sono più dei pieni. Eppure, come in quei giochini, una figura leggibile alal fine viene fuori.

Leggibile e credibile. Se ci fermassimo prima delle ultime semioscure stanze del Castello dei Pio a Carpi dove è allestita la mostra di Paolo Ventura, L'archivio ritrovato di V.P., potremmo comunque dire di aver conosciuto un uomo, attraverso i cimeli della sua vita che di lui ci sono rimasti. Inaspettatamente e casualmente ritrovati in una camera segreta e trascurata del Castello in cui dormirono per quasi due secoli, così dicono le spiegazioni.

Se Paolo Ventura fosse Joan Fontcuberta, il beffardo catalano maestro degli inganni di cui proprio in questi giorni, coincidenza, apre la grande antologica Camouflages alla Mep di Parigi (uscirà fra breve il volume relativo anche in Italia, da Contrasto), la mostra finirebbe prima di quelle ultime sale. Lasciando al visitatore la scelta imbarazzante tra credere o non credere a quel che gli è stato appena raccontato così autorevolmente, dal "curatore" ufficiale di una "mostra" ufficiale, piena di spiegazioni, pannelli, didascalie...

Paolo, invece, non è questo che vuole. Il suo obiettivo non è mettere sotto stress la tensione fra il nostro senso critico e la nostra vulnerabilità. E nelle sale finali i fatti svela il suo gioco, esponendo i modellini in legno e cartone dipinto che gli sono serviti per ricreare, e dagherrotipare fuori tempo, l'immaginario skyline di una Carpi di metà Ottocento.

E poi ci mostra cos'è un dagherrotipo, ci spiega come lo si può replicare anche oggi. Apre la cassetta dei trucchi del prestigiatore visuale. Perché lo fa?

Paolo Ventura, L'archivio ritrovato di V.P., 2013, courtesy Palazzo dei Pio di Carpi

Paolo Ventura, L'archivio ritrovato di V.P., 2013, courtesy Palazzo dei Pio di Carpi

Non credo che Ventura sia più indulgente di Fontcuberta, non credo che abbia voluto risparmiare ai suoi visitatori l'imbarazzo di chi, troppo tardi, capisce quanto è stato credulone (a me capitò molti anni fa, quando di Fontcuberta non sapevo nulla, e fino alla fine di una sua mostra rimasi convinto che avesse davvero recuperato straordinarie inedite prove da fotografo di Mirò e Picasso...).

L'obiettivo di Ventura, e non da oggi, è rendere permeabile, attraversabile con la fantasia, il confine fra finzione e realtà, confine che la fotografia confonde anziché definire. Non vuole metterci in guardia dalla finzione e dall'ambiguità: anzi, vuole farcene affascinare.

Mentre Fontcuberta, con le sue geniali invenzioni di erbari, bestiazi, biografie immaginarie e documentatissime ricostruzioni di eventi mai avvenuti, gioca con i limiti del nostro senso critico, per dimostrare quanto la fotografia assomigli al "bacio di Giuda": pericolosa, ipocrita, ma inevitabile, necessaria, escatologica.

Credo però che Ventura e Fontcuberta, battendo sentieri diversi, finiscano per metterci in mezzo allo stesso modo. Entrambi in fondo vogliono renderci consapevoli che si può navigare piacevolmente tra verità e finzione, tra sana diffidenza e ingenua fiducia, ma che bisogna sapere quel che si fa e quel che si guarda.

Anche perché la scelta solo apparentemente è ovvia, a volte quel confine non separa verità e falsità, ma  pedanteria e poesia, banalità mediocre e dolce illusione.

Attraversare quel confine dunque dev'essere una scelta, consapevole, e non un caso distratto o una costrizione dovuta di potere, o di inganno.

"Del ver più bella è la menzogna" scriveva un nostro poeta barocco. Meravigliosa sintesi che include due affermazioni fondamentali: abbiamo la capacità di distinguere tra il vero e il falso, e abbiamo la libertà di scegliere fra l'uno e l'altro.

E qui mi permetto di non essere del tutto d'accordo con l'amico, eccellente curatore Luca Panaro quando conclude: "che sia finto, che sia vero, non è importante". Ecco, io invece penso che sia importante. Che sia necessario salvare, perfino quando si fa arte, almeno la consapevolezza che esiste un confine fra il vero e il falso, per quanto sia difficile riconoscere dove passa di preciso.

E penso che sia importante, ma forse è questo che Luca voleva dire, rivendicare la libertà di scegliere quando è giusto avventurarci da una parte o dall'altra di quel confine, e godere della consapevole falsità che è l'arte, perché è forse questa capacità unica, di gioire di cose non vere, che ci fa uomini.


Senza titolo: la battaglia della didascalia

$
0
0

senzatitoloO voi fotografi che amate il paradosso e intitolate le vostre foto "Senza titolo"; o voi reporter che scansate il problema classificandole solo per nome e data.

O voi curatori che appendete i cartellini sulla parete nel punto più lontano dalla cornice; o voi editori che confinate le parole di spiegazione in fondo al volume: sappiate che anche Henri Cartier-Bresson le odiava. Le didascalie.

Le odiava tanto che nel '97, intervistato da Michel Guerrin di Le Monde, sbottò: "Vorrei scrivere false didascalie sotto le mie foto, per costringere la gente a guardare coi propri occhi invece che con il loro cervello".

Eppure, una quarantina d'anni prima, nel suo L'imaginaire d'aprés nature, aveva scritto: "In un reportage, le didascalie devono essere il contesto verbale delle immagini". Ai suoi tempi d'oro scriveva lunghe didascalie e ne pretendeva il rispetto assoluto: Magnum nacque anche per questo, per rivendicare ai fotografi il diritto esclusivo di far parlare le proprie immagini.

Ambigua, contraddittoria la storica antipatia della gente d'immagine per quel "messaggio parassita", per quel sottopancia che, ipocritamente umile, rapina alla fotografia il suo significato e se lo intesta, che divide il campo dei fotografi da quando la fotografia esiste. Tollerata, mal sopportata, sospetta, sorvegliata.

Alberto Lattuada chiedeva alle didascalie di non spiegare troppo. W. Eugene Smith, di non fare spoiling, diremmo oggi, cioè di non svelare troppo il senso dell'immagine.

Pensano, i fotografi, che la didascalia sia una catena che impedisce alle loro immagini di volare. Alfred Stieglitz non le metteva addirittura, nelle sue mostre. Ma lui era un artista.

Però David Douglas Duncan era un fotoreporter, eppure non volle ci fossero parole accanto alle foto del suo grande This Is War!, e alle lamentele dei lettori rispose che "non fa alcuna differenza se una collina è quella o un'altra, se un uomo è lui o suo fratello, quell'uomo è qualsiasi uomo porti un'arma sulla linea del fronte".

Non poteva dirlo più chiaramente: la didascalia ricorda alla fotografia proprio questo, che non può fotografare "qualsiasi uomo" ma sono quell'uomo, neanche suo fratello. Le impedisce l'accesso all'universale. La ammanetta al contingente. E questo ad alcuni fotografi non piace.

Per Martha Rosler, fotografa e critica femminista, "immagini senza ancoraggio verbale non possono essere chiamate fotogiornalismo a buon diritto". Per essere utili ai poliziotti della Prefettura di Parigi, i ritratti segnaletici dei delinquenti dovevano essere accompagnati da lunghe schede, i "ritratti parlati".

Ma la didascalia fa molto di più, lo sappiamo. Toglie alla fotografia le sue ambiguità, impone una lettura su tutte le altre. Per Walter Benjamin "senza la didascalia ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa". Ma lui tifava per la letterarizzazione delle immagini, in funzione politica.

Rudolf Arnheim spiegherà poi che solo la lingua possiede la capacità di istituire quelle relazioni di causa-effetto che sono il requisito di un giudizio sul mondo.

"Un'immagine testimonianza amputata dal suo contesto verbale è incapace di assolvere la sua funzione, scivola verso un apprezzamento solo estetico e formale", ha ribadito il concetto Jean-Marie Schaeffer nel suo L'image précaire.

Ma così facendo la didascalia, forte del suo "dover leggere" (Georges Didi-Huberman), si para fra immagine e lettore. Dice al lettore cosa deve vedere. La didascalia è prepotente. Autoritaria. Dittatoriale. Spesso malevola, distorce il senso, lo cambia a suo piacimento. Con la didascalia le foto possono mentire. Con la didascalia, un editor può far dire alle fotografie quello che non dicono.

Nel dicembre 1956 L'Express pubblicò due volte lo stesso reportage fotografico dall'Ungheria in rivolta, in un caso accompagnandolo con didascalie a favore degli insorti, nell'altro con didascalie a favore degli invasori. L'esperimento non voleva dimostrare che la didascalia stravolgeva il senso delle foto, ma più semplicemente che le foto non erano in grado di contraddire l'una o l'altra versione, ma si prestavano diligentemente a confermarle entrambe, a turno.

Nel 1981 Die Zeit fece una cosa molto simile, pubblicando la stessa foto, di Allan Kaprow (un uomo seduto a un tavolo anonimo), quattro volte nello stesso numero del giornale, con differenti didascalie che le trasformavano in prova visuale di quattro eventi diversi. I lettori scandalizzati, racconta Joan Fontcuberta, preferirono pensare si fosse trattato di un errore piuttosto che ammettere di essere rimasti vittime della polisemia delle immagini.

La didascalia, per Franco Vaccari, dimostra appunto questo, che la fotografia non possiede un suo codice univoco, una grammatica che ne sciolga il senso come accade con le frasi della scrittura. Se le fotografie parlassero così chiaramente, la mise giù con ironia Mark Twain, nessuno avrebbe inventato le didascalie.

Chi ha ragione? Una scuola critica ora non molto in voga, e che potremmo chiamare la scuola purovisibilista del fotografico, quella che fa capo a Jean-Claude Lemangy, sostiene che le fotografie non hanno nulla da dire alla nostra attenzione razionale, che il loro mutismo è la loro ragion d'essere, che ogni tentativo di verbalizzarle le distrugge.

La pensava così anche un grande editore, Robert Delpire. Viceversa, sulla scia di Benjamnin, i critici radicali cone John Berger sostengono che solo con la didascalia una foto può sfuggire al rischio di diventare servitrice del primo padrone che passa. I pionieri della fotografia sociale, Hine e Riis, sommergevano le proprie fotografie di parole scritte o parlate.

Potrei andare avanti ancora molto con esempi e citazioni (prima o poi magari lo farò). Ora mi fermo qui e vi lascio in mezzo (immagino) al dubbio. Vi aspettavate che sciogliessi  l'incertezza? Eh no, ogni tanto anche le parole somigliano alle fotografie...

L'uomo che fotografava con la mente. Potenza di un desiderio

$
0
0
Io sono una macchina fotografica. Passiva, con l'otturatore sempre aperto, registro e non penso.
Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin

Serios1Scrivo spesso, qui, del terrore mitico che prova il fotografo nei confronti del suo strumento, il terrore di essere dominato dalla fotocamera, surclassato, asservito dalla sua maggiore potenza tecnologica. Il panico prometeico, lo chiamava Gunther Anders, dell'uomo che scopre di essere tecnologicamente obsoleto.

Bene, ho incontrato il pensiero mitico opposto: il desiderio di diventare una fotocamera. Di fondere la propria mente con l'apparato che produce immagini.

L'ho incontrato, come mi capita spesso, su una bancarella. Sotto forma di un volumone scuro dell'editore Sugar, fantastico fornitore di storie paranormali alla mia curiosità di adolescente, penso alle teorie archeologico-extraterrestri di Peter Kolosimo (se mi sentono Massimo Polidoro e gli altri miei amici del Cicap...).

Sapete, ho una specie di radar, uno scanner mentale, che capta al volo i libri con la parola fotografia nel titolo. Questo era imperdibile: Fotografo senza obiettivo.

E il sottotitolo era succulento: L'enigma scientifico di Ted Serios, l'uomo che fotografa col cervello.

L'edizione originale uscì nel 1967 negli Stati Uniti. L'autore, uno parapsicologo che vantava titoli accademici, tale Jule Eisenbud.

L'oggetto del racconto: un caso clamoroso di fenomeno thoughtographic. In italiano, pensierografia.

Incarnata in un individuo improbabile. Ted Serios, scombinato ex portiere d'albergo, bevitore eccessivo, disoccupato, emotivamente instabile, ma dotato di una portentosa capacità: scattare, con la sola forza del pensiero, immagini sulle pellicole di una Polaroid camera.

Il libro è costruito nello schema classico del genere "non ve lo dicono ma è così" (oggi molto in voga). L'autore, contattato da conoscenti del fenomenale fotografo, gioca prima la parte dello scettico, antepone tutti i suoi dubbi, nello stile "mi deve proprio convincere". E poi, ovviamente, si fa convincere:

Le leggi fisiche hanno ben poco a vedere con questo processo. La macchina fotografica non registra qualcosa che essa vede, ma qualcosa che non potrebbe riprendere se si comportasse come deve comportarsi una comune macchina fotografica nel mondo fisico.

Per non essere troppo prolisso, vi riassumo come funzionava la cosa: messo di fronte a una camera Polaroid, Serios veniva invitato, o lo proponeva lui, a pensare a un "bersaglio", un certo luogo, oggetto. Lui si concentrava, poi dava l'ordine di premere il pulsante di scatto. Ogni tanto (i fallimenti erano molto più frequenti dei successi) la fotografia che ne usciva mostrava ombre confuse variamente interpretabili, e qualche volta immagini deformate ma abbastanza chiare. Del bersaglio, o di qualcosa che ci si avvicinava.

Devo dire la lettura di quelle quattrocento pagine, ampiamente illustrate con le "prove" delle facoltà paranormali di Serios, è stata avvincente. Ho chiuso il libro affascinato dal sogni di poter fotografare solo con la mente.

La stella di Ted Serios, mi sono informato, tramontò in fretta. Pochi mesi dopo l'uscita del libro fiorivano già le smascherature. Se ne occupò perfino James Randi, celebre prestigiatore e altrettanto accanito sbufalatore di imbroglioni.

Molti sospettarono che quel cilindretto di cartone, da lui chiamato gizmo, che Serios teneva in mano e avvicinava all'obiettivo della fotocamera "per concentrarsi", non fosse affatto innocente; probabilmente Serios, con abile gioco di mano, vi faceva scivolare frammenti di pellicola o sferette di vetro contenenti micro-immagini che impressionavano la pellicola in modo del tutto spiegabile.

Serios2Del resto, alcune "fotografie mentali" di Serios si rivelarono simili, punto per punto, a fotografie già apparse su riviste, ad esempio sul National Geographic. La mente di Serios non scattava foto originali, ma le copiava...

Ma l'inevitabile, prevedibile vittoria del prosaico mi interessa meno della suggestione di un desiderio che questa storia non inventa, che percorre come un fiume carsico tutta la storia della fotografia.

Del resto Eisenbud stesso, inevitabilmente, finisce per citare come precedente il travolgente successo, nella seconda metà dell'Ottocento, della fotografia spiritica. Che convinse, ricordiamolo, anche un razionalista come Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes...

Dovette essere davvero uno shock antropologico, la comparsa della fotografia. L'esistenza di immagini "non create dalla mano dell'uomo" risvegliava un fondo di credenze nel potere dell'immagine achiropita, nella sua genealogia divina. Dotata di extrapercezione, in  grado di vedere cose troppo lontane per l'occhio (le stelle e i pianeti), o troppo piccola (batteri al microscopio), perché la fotografia non avrebbe potuto vedere l'invisibile? L'Ottocento vide incessanti esperimenti con i fantasmi, con l'aura corporea, con la fotografia del pensiero.

Ma il caso di Serios in qualche modo è rovesciato. Qui non è la fotografia che beffa le capacità del corpo umano producendo immagini apparentemente impossibili; ma il corpo umano, o meglio la sua mente, che produce fotografie al di fuori del normale.

Non più la fotocamera che sostituisce l'uomo. Ma l'uomo che diventa macchina fotografica.

Ted non 'vede' le immagini che realizza in qualità di strumento; il suo apparato visivo e la sua coscienza sono rappresentati dalla pellicola.

La fotocamera diventa insomma un organo extracorporeo, una facoltà della mente esternalizzata in un apparato tecnico che ne dipende come una protesi psichica.

Il modo in cui le immagini di Ted si formano sulla pellicola assomiglia strettamente a quegli sprazzi (solo sprazzi, purtroppo) sulla formazione delle immagini nella coscienza.

Eisenbud probabilmente sapeva, anche se non lo dice, che questa affermazione somiglia molto a quel che scriveva Sigmund Freud, della lastra fotografica come metafora dell'apparato psichico.

Alla fine, è questo che resta del caso Serios, verosimilmente uno dei tanti millantatori del paranormale. La sensazione che la fotografia possieda una segreta, inspiegabile affinità con l'immaginario psichico, con le immagini mentali, con il sogno.

L'idea che la fotografia sia una scoperta più che una invenzione. Una scoperta di qualcosa che abbiamo già dentro.

Non è bello pensarlo?

I deepfake e quel che ne pensava la mia mamma

$
0
0

Nel video, Barack Obama, con quella sua voce inconfondibile, definisce Donald Trump “a total and complete dipshit” (servitevi del traduttore di Google se non vi è chiaro). Dice proprio così, glielo leggiamo sulle labbra che disegnano perfettamente tutte le parole e le lettere dell’insulto.

ObamaDeepFakeIn un altro video, Mark Zuckerberg ci svela, sempre in labiale perfetto, che Facebook è una piattaforma inventata per controllare le nostre vite.

Cercate pure altri esempi sul Web. Basta la parola chiave, deepfake. Perché ovviamente Obama non ha mai detto quella cosa, e neppure Zuckerberg.

Forse molti non ci hanno creduto (il video con Obama peraltro è un video di debunking, fatto per mettere in guardia dai deepfake). Vorrei tanto credere che i cittadini del mondo digitale, di fronte a un comportamento abbastanza inverosimile di una persona celebre, sospettassero per prima cosa che si tratti di un falso.

Vorrei che il primo pensiero di tutti, di fronte a una “prova video” che ci sconcerta, fosse: accidenti, la tecnologia corre forte.

Purtroppo, qualche test sugli utenti del Web ha verificato che l’era della manipolazione non ci ha reso più scaltri, più capaci di avvertire il pericolo, ma più creduloni.

Il deepfake è la nuova frontiera delle fake news. Non è questo il posto per spiegare come si produce un video in cui si riesce a far dire a un volto noto cose che non ha mai detto, in modo che però ci sembri assolutamente verosimile. Sul Web trovate tutte le spiegazioni.

Quello che mi colpisce, nel clamore scandalizzato che sta accompagnando la diffusione di queste sofisticatissime balle, è la sensazione di dejà vu. Gli argomenti del dibattito etico sul deepfake sono identici a quelli che occupavano la scena una ventina di anni fa, quando cominciarono ad apparire sul Web immagini di sintesi che ci apparivano (allora) molto realistiche e convincenti.

Ve li ricordo: è finita l’epoca della fiducia nelle immagini. Siamo entrati nell’era del sospetto. Non possiamo più credere a una fotografia (video). Le fotografie hanno perso ogni legame referenziale con la realtà. Eccetera.

Chi non si rassegnava alla morte della fotografia come strumento capace di dirci qualcosa sul mondo reale, all’epoca veniva trattato come un ingenuo che crede alle favole. Una vulgata postmodernista impose un credo scettico: nulla di ciò che vedi in una fotografia ha a che fare con la realtà. Fu dichiarato esaurito, dopo meno di due secoli, il mandato storico di documento e racconto del reale affidato all’invenzione di Daguerre.

Scrissi un libro, in quegli anni, Un'autentica bugia, per sfuggire a quella tenaglia fra rimpianto di una condizione di innocenza mai esistita e il nuovo dogmatismo scettico. Per dimostrare che la possibilita del falso non sta in una tecnologia particolare, ma nella costruzione delle strutture dei  discorsi e delle mediazioni.

Un libro che aveva due bersagli polemici: gli apologeti della “rivoluzione digitale”, i nostalgici dell’“immacolata percezione”. Una doppia, perniciosa miopia mascherata da conflitto.

Feci in tempo a segnalare un importante tentativo di riscossa dei secondi. Una reazione che cercava di ritorcere contro il nemico manipolatore di immagini le sue stesse armi tecnologiche.

Alcuni scienziati, fra cui spiccava Hani Farid, docente di Computer Science all'università di Berkeley, svilupparono complessi software di analisi e rilevazione delle manipolazioni sul corpo delle immagini.

Sostenevano, peraltro con un certo fondamento, mi pare, che gli interventi di modifica del testo visuale, per quanto accurati, lasciano sempre una traccia, una cicatrice di pixel che è possibile stanare e denunciare. La scienza dell’onestà contro la scienza del falso: era quasi una narrazione cavalleresca, le armi dei paladini contro quelle degli infedeli.

BrugioniMa non era una novità. Al tempo della guerra fredda, negli anni Cinquanta,  la Cia si dotò di un Centro di interpretazione fotografica che mise a punto tecniche molto sofisticate di smascheramento dei falsi, allora provenienti soprattutto dai paesi del blocco comunista, tecniche che si fondavano sull’ispezione delle textures, sulla verifica di coerenza delle proporzioni, delle ombre, tecniche raccontate da uno degli ex direttori, del servizio, Dino A. Brugioni, in un libro, Photo Fakery,  che consiglio ancora a tutti.

Molte delle tecniche della Cia di quegli anni oggi sono invecchiate e sarebbero impotenti contro tecnologie di simulazione che producono immagini di impressionante verosimiglianza e coerenza.

Tuttavia, i detective iconografici, tra i quali in prima fila c’è ancora Farid, non hanno ceduto le armi e continuano a sostenere che sia possibile smascherare i falsi semplicemente perlustrandone il testo con adeguati strumenti.

Una rincorsa fra falsari e detective che un grande scrittore (sì, più grande di quel che è ritenuto abitualmente), parlo di Jules Verne, satireggiò a morte nei primi capitoli di Dalla Terra alla Luna, dove mise in scena il duello kubrickiano fra due ingegneri, Barbicane progettista di proiettili sempre più perforanti e Nicholl progettista di corazze sempre più resistenti.

Buona fortuna, e dopo tutto è un lavoro che può servire. Ma spero che questi benintenzionati debunker abbiano coscienza di un’altra cosa. Cioè che l’intimazione postmoderna (non esiste più alcuna possibile verità nelle immagini) non ha avuto poi quel successo universale che si pensava.

D’altra parte, proprio la fatica che si fa per falsificare una fotografia è la prova che in fondo la fotografia ha una certa originaria tendenza alla sincerità che occorre traviare brutalmente.

Abbiamo infatti continuato a chiedere alle immagini di dirci qualcosa sul mondo reale e non solo sulla fantasia di qualche nerd. Quando sono arrivate le immagini terrificanti dalla prigione delle torture di Abu Ghraib, le abbiamo prese sul serio, anche se erano fotografie digitali. Il video con l’ammazzamento di Floyd ha sollevato un paese intero, senza grandi dibattiti sulla sua autenticità.

Di cosa stiamo parlando, allora? Davvero di tecnologia? Ma anche Zelig era pieno di credibili deepfake. E anche Forrest Gump. Gli effetti speciali dei grandi blockbuster non hanno niente da invidiare ai finti discorsi di personaggi famosi che adesso ci stupiscono tanto. Ma quelli sono film. Mentre li guardiamo, sappiamo cosa sono, no?

Ecco, allora, non dobbiamo perderci a parlare di tecnologie che si rincorrono.

Parliamo invece di regimi di verità scivolosi. Una immagine si guadagna il proprio statuto di credibilità attraverso la forza de canale in cui ci raggiunge, e la debolezza del bisogno di verità di una società.

Se affidiamo tutte le nostre conoscenze a un medium, il Web, che rende impossibile (per eccesso di dati) ogni verifica fattuale, se accettiamo come certe le informazioni che confermano quello che già crediamo di sapere, siamo già corazze perforate. La cornice di senso del medium e del contesto, ecco cosa spalanca le porte alla credulità.

Come se ne esce? Costringendo le immagini a confessare, sotto interrogatorio tecnologico di terzo grado? Proprio no.

Continuare a cercare le possibili verità che una immagine può ancora fornirci solo all'interno del suo testo, significa tornare a un'idea metafisica delle immagini come qualcosa che contiene una verità nascosta, che con strumenti opportuni si può scovare e allora è una sola, evidente e senza ambiguità.

Purtroppo no: le immagini sono sempre state e sempre resteranno polisemiche, ambigue, suscettibili di rilasciare "verità" diverse secondo le domande che si sentono rivolgere. Se intimiamo a una toto di dirci la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità, avremo come immancabile risposta una bugia.

Non è dentro le immagini che troveremo quel poco o tanto di informazioni utili a farci un'idea del mondo, ma nella relazione fra quel che sta dentro e quel che sta fuori la loro cornice. Non è con tecnologie "veridiche" che troveremo quelle informazioni, ma non la soggettività dello spirito critico.

La tecnologia di cui abbiamo bisogno con maggiore urgenza allora è quell'antico, sani dubbio metodico che dovrebbe far parte della nostra cassetta degli attrezzi di interpretazione del mondo, e non solo delle immagini.

Quel mio libro di undici anni fa si concludeva con alcune raccomandazioni su quali attrezzi è urgente recuperare e mettere nella cassetta: riconoscere le bugia; non creare altre bugie; usare bene le bugie che ci sono; cercare ogni frammento di verità sfuggito ai bugiardi; misurare la quantità di verità disponibile.

E la scatola dovrebbe avere come etichetta una frase che inutilmente, tempo, mamma ci ha ripetuto alla noia quando eravamo piccoli: non metterti subito in bocca qualsiasi cosa trovi per terra.

L'Italia, nel suo piccolo

$
0
0

“Scavalcai la grande porta occidentale, cominciai a camminare di sghembo e con accortezza per le strade principali, con il solo giubbetto addosso, per paura di danneggiare i tetti e le grondaie delle case con le falde della giacca”.

1 Ghirri - Rimini 1977 @ARCHIVIO EREDI LUIGI GHIRRI

Luigi Ghirri: Rimini 1977 @ Archivio eredi Luigi Ghirri, g.c.

Nel quarto capitolo dei suoi Viaggi, al signor Lemuel Gulliver è finalmente concesso di visitare Mildendo, la capitale del regno di Lilliput. I cui minuscoli abitanti sono stati preavvisati di non farsi trovare per strada, pena il rischio di venire inavvertitamente calpestati dall’Uomo Montagna.

Chi ha letto quel libro meraviglioso si sarà reso conto che, dopo l’iniziale sorpresa, la differenza di proporzioni fra lo straniero e i suoi ospiti diventa un dettaglio di secondo piano, rispetto alla sua curiosità di vedere, e capire, quel mondo.

Qualcosa del genere credo succeda ai visitatori dell’Italia in miniatura, quel parco tematico sulla riviera romagnola, per la precisione a Viserba, ancora oggi in attività, dove su un’area di 20 mila metri quadri sono radunate le miniature in scala 1:25 di 270 monumenti italiani, cattedrali, palazzi, torri, riprodotti con certosina accuratezza e accostamento surrealista.

Me lo fanno capire le loro fotografie, le fotoricordo dei visitatori stessi. Che dopo qualche minuto di acclimatazione, si mettono in posa davanti ai diorami come farebbero davanti ai monumenti veri.

index

Gabriele Zagaglia, da La vita è un viaggio

Forse perfino più contenti così: i finti sostenitori della Torre di Pisa, ad esempio, lì possono davvero tenerla su con la mano.

Lo ha scoperto, cercandole sui social, Gabriele Zagaglia, uno degli studenti dell’Isia di Urbino che hanno partecipato alla costruzione di una delle mostre per me più appassionanti e istruttive che abbia visto da parecchio tempo. In scala diversa, inaugurata per il festival Fotografia Europea di Reggio Emilia, curata da Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta e Matteo Guidi, la trovate aperta ancora per molti mesi ai Musei Civici di quella città (che sono, tra l’altro un’avventura della visione in sé).

4 Ghirri Rimini 1977@ARCHIVIO EREDI LUIGI GHIRRI

Luigi Ghirri: Rimini 1977 @ Archivio eredi Luigi Ghirri, g.c.

I visitatori ci capitano attirati da un nome importante: Luigi Ghirri che, come tanti di voi sanno, all’Italia in miniatura dedicò una sua celebre serie di fotografie che chiamò In scala. Era davvero una Disneyland, per lui, quel posto: ci trovò, già pronto, quel senso di dislocazione dello sguardo, quel conflitto senza strepito fra realtà e finzione, tra quotidianità e incongruo, quel rimbalzo fra visione e immaginazione, sui cui ha lavorato per tutta la vita.

Alcune di quelle immagini finirono nel suo opus maior, ossia Kodachrome: qui escono dall’archivio anche quelle non molto viste, o affatto. Ma, devo dire la verità, non è il piacere dell’inedito d’autore il vero cuore di questa mostra, che è un piccolo capolavoro di curatela.

La sezione con le fotografie di Ghirri, infatti, è la spina dorsale di uno spazio triplice. Sulla destra, una serie di salette dove sette studenti Isia mostrano i lavori di ricerca visuale ispirati al parco, che hanno visitato e studiato a lungo.

Sono meta-lavori fotografici intelligenti. Filippo Marani usa la visione del drone per ridurre i monumenti reali alla visione del satellite, per il quale tutto il mondo è in miniatura.

Mattia Gabellini si diverte con quel fantastico gadget offerto dal parco: farsi trasformare in una figurina tridimensionale che verrà posta nel diorama (quasi tutti scelgono di essere collocati nella propria città.

Giacomo Ponasso guarda il parco da fuori, come una presenza urbanistica reale e illusoria insieme nel suo contesto.

Camilla Marrese e Fernanda Villari analizzano l'archivio di Rambaldi. Ginevra Scipioni studia il processo di tarasformazione di materiali reali (rocce) in elementi di finzione.

Tommaso Veridis fotografa il parco come avrebbe fatto un calotipista dell'Ottocento, e mescola le sue immagini con quelle antiche: finzione di una finzione.

Simone Allevi scende nei dettagli minimi delle fotografie e li ingrandisce fino a renderli illeggibili: la miniatura che esplode..

E Fontcuberta stesso va nel parco tematico svizzero che ispirò Rambaldi, e fotografa le miniature sullo sfondo delle montagne vere, restituendo loro, fittiziamente, la dignitosa dimensione del reale.

Sulla sinistra, un’analoga serie di salette ci apre uno scrigno di Ali Baba.

È l’archivio aziendale del parco. Carte, disegni, progetti e fotografie mai esposti prima d’ora. Senza vedere i quali, qualsiasi racconto di quell’impresa visionaria geniale e folle non si può comprendere.

Fu un’idea di Ivo Rambaldi, un romagnolo naturalmente. Imprenditore ramo termosanitari per professione. Visionario per vocazione. Quel parco di miniature visto in Svizzera gli scatenò lo sbuzzo.

Investì tutti i soldi dell’azienda e della famiglia, a rischio bancarotta. Mobilitò una squadra di 14 tecnici, 2 geometri e 4 professori, allestì una officina e cominciò a produrre modellini.

Il 4 luglio 1970 il parco aprì i battenti. Pioveva. C’era poca gente. La figlia di Rambaldi scivolò e si fece male a una gamba. Non fu un grande inizio.

Ma una trasmissione televisiva poi cambiò tutto. Il parco divenne popolarissimo. Da allora ad oggi trenta milioni di Gulliver hanno visitato l’Italia lillipuziana.

Questa è la storia esteriore. Ma entrare nella fucina dell’impresa è la cosa emozionante. Non era mica facile, miniaturizzare il Bel Paese.

Servivano rilievi, schemi, immagini. Non ce n’erano. Rambaldi fece da sé. Letteralmente. Percorse 27 mila chilometri dello Stivale per raccogliere misurazioni e immagini.

Eccolo, lo vediamo in queste fotografie ingiallite, con una pertica in mano, uomo vitruviano in versione arte povera (dice Fontcuberta), confrontare con la sua statura gli edifici celebri: e già questa è una metafora bellissima, un paese misurato col proprio corpo.

3 Ghirri Rimini, 1977@ARCHIVIO EREDI LUIGI GHIRRI

Luigi Ghirri: Rimini 1977 @ Archivio eredi Luigi Ghirri, g.c.

Artigianalmente, Ivo prendeva fotografie su cui poi disegnava misure, e incollava una accanto all’altra per ottenere delle panoramiche, che adesso veramente ci sembrano dei montaggi di David Hockney.

È un archivio vivo, sapete. In confidenza, i curatori mi dicono che non è stato facile esporre questo tesoro, perché il parco ha una officina che ne cura costantemente la manutenzione e quel materiale gli serve. Perché ogni tanto, senza farsi vedere, qualcuno rubacchia dei pezzettini. Le colonne della Torre di Pisa vanno forte. Bisogna rifarle e rimetterle a posto.

E questa appropriazione, vandalistica siamo d’accordo, però in fondo è coerente con lo spirito dell’operazione visionaria. Tutti questi monumenti sono dei prelievi di realtà. Esattamente come lo sono le fotografie.

Che cos’è stata, ed è ancora, la fotografia, se non la scatola magica che ci permette di asportare il mondo in formato ridotto e portarcelo a casa?

Ricordo una cartolina primi Novecento, un fotomontaggio che sarebbe piaciuto ai surrealisti, dove un viaggiatore si porta a casa, tenendoli in braccio, i monumenti più famosi della mia città, Modena.

deglierri-Estense-partic05San_GimignianoDa dove viene, questo fascino della miniatura? Ridurre le dimensioni di un monumento è renderlo maneggevole, asportabile, trasferibile come un oggetto mobile. Nei dipinti classici, i generosi mecenati offrono al santo un modellino della basilica che hanno costruito per lui.

La fotografia ha messo quel desiderio a disposizione di chiunque. Le fotografie riducono il mondo a cartoncini uniformi e impacchettabili: lo ha detto l’inevitabile Susan Sontag.

In questa riduzione, naturalmente, avviene una semplificazione: qualcosa si perde. È una operazione riduzionista in molti sensi: anche in quello epistemologico. Ovvero: ridurre un fenomeno al suo scheletro essenziale per poterne capire il funzionamento.

Come Borges ci ha fatto capire nel suo celebre racconto sulla mappa dell’impero, riprodurre il mondo a scala naturale è del tutto inutile. Ridurre è falsificare, ma “il falso è un momento necessario del processo di conoscenza”, scrive Fontcuberta nel suo testo sul catalogo, “parte ineliminabile della verità”.

Ma questa, dell’appropriazione per riduzione, è solo la più evidente e in fondo ovvia delle interpretazioni. Ce n’è un’altra, che mi interessa forse di più, e che proprio Ghirri esplicitò con grande perspicacia, quando si trovò a fotografare quel luogo. “È proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero”, scrisse.

Voleva dire questo: quando siamo al cospetto dei monumenti reali, li guardiamo pensando a tutte le immagini che ne abbiamo visto ancor prima di vederli dal vivo, e quindi in realtà non vediamo i monumenti ma la loro immagine; quando invece siamo fra le loro piccole copie, le guardiamo pensando al monumento reale, e dunque la nostra mente non vede le copie, ma la realtà.

Che intuizione fantastica: come in un’algebra del senso, meno per meno da più, mentire una menzogna ci apre la strada per una accettabile approssimazione alla verità. La fotografia, menzogna inevitabile, può (anche questa la rubo a Fontcuberta) “mentire bene la verità”.

Il profeta delle fake news

$
0
0

L’unico a non divertirsi quel giorno fu Giorgio, perché lui era simpatizzante del Manifesto, ma nella distribuzione del cast gli era toccata la parte del feroce parà britannico.

DSC_0254

"Roger Walker" (Bruno Vidoni), Finto reportage sull'Irlanda del Nord, 1973. eredi Vidoni

Non ci fu niente da fare, perché Bruno Vidoni non tollerava obiezioni: i falsi, diceva, sono una cosa seria.

Lavorarono sodo, in quel vicolo di Pieve di Cento, provincia di Ferrara, dopo averlo affrescato di graffiti indipendentisti, essersi vestiti con divise comprate ai mercatini e aver imbracciato armi vere trovate chissà dove.

foto2

"Roger Walker" (Bruno Vidoni), Finto reportage sull'Irlanda del Nord, 1973. © eredi Vidoni

Verso sera, il reportage fotografico sulla sanguinosa battaglia fra cattolici e protestanti era pronto.

Poche settimane dopo uscì sulle pagine di una prestigiosa rivista, Fotografia Italiana, ammiraglia della fotografia impegnata, col titolo “L’odio brucia l’Irlanda”.

Era l’agosto del 1973. L’espressione fake news non esisteva ancora. Allora fu chiamata “una beffa”.

Nessuno, nella furiosa polemica che seguì il suo svelamento, capì invece che era l’alba di una nuova era, quella della postverità.

È davvero incomprensibile che nessuno abbia mai riconosciuto il ruolo di precursore e profeta delle fake news (ma di quelle deliberatamente omeopatiche e pedagogiche) a questo mite, eclettico, sarcastico professore di educazione artistica alle scuole medie, un visionario che ha esplorato la zona crepuscolare fra il sogno e la realtà, una di quelle genialità che hanno sempre reso assai poco provinciale la provincia italiana.

IMG_20220408_095738

L'ingresso della casa-museo Bruno Vidoni, a Cento (Ferrara). A destra, Marina Ferriani Vidoni; sotto, l'allestimento di una sala del museo.

IMG_20220408_112503Forse perché non volle mai abbandonare la cittadina del Guercino, Cento, e la sua bella casa nobiliare di via Gennari 35; infatti è ancora lì, in spirito, ventidue anni dopo la morte, dove sua moglie, Marina Ferriani, ha restaurato e aperto da poche settimane, “tutto a mie spese, neanche un centesimo dallo stato”, una singolare casa-museo d’artista che ha una storia tutta da raccontare.

IMG_20220408_104848La storia di un artista appartato ma colto, ironico, uno scrittore, un erudito appassionato di storia locale, ma soprattutto pittore che già coi pennelli in mano gioca sottilmente con la mimesi e la parodia.

Non ha un suo stile, ne ha dieci: metafisico, surrealista, pop, un giorno si inventa un pittore inesistente, il futurista Romolo Fabbj, il mercato dell’arte ci casca, lo trovate ancora quotato sul Web, eppure le sigle su quei tre biplani dipinti in eroica battaglia aerea, se lette di seguito, fanno “VI-DO-NI”. Un ritratto di Mussolini, firmato Fabbi, finì in una mostra sull'arte del Ventennio.

foto6

Bruno Vidoni nel suo studio, anni Ottanta

Adora particolarmente la fotografia, magnifico veloce giocattolo che fabbrica la realtà più che riprodurla; bazzica i circoli fotoamatoriali ma ne sorride, e decide di prendersene gioco: nel ’69 vince un concorso con un reportage sulla vestizione di un torero, una cosa epica in stile W. Eugene Smith.

foto5

Bruno Vidoni, dalla serie Corrida, 1969. © eredi Vidoni

Ma non è Siviglia, è la trattoria Da Encio, dietro casa, tutto recitato, compresa la ballerina di flamenco, e poi sul muro cosa diavolo ci fa una icona russa?

Ma è la sacra immagine di Santa Bladina, venerata a Cento, dispensatrice di biracoli e grazia ella quale sono dedicate decine di ex-voto. Ovviamente anche tutto questo  è frutto solo della fantasia di Vidoni, santa compresa.

Insomma, questo genio beffardo non poté non incontrare e mettersi in combutta con un altro genio beffardo della fotografia italiana, Ando Gilardi, storico e critico pestifero, che sulla sua rivista Photo13, nel 1971, gli pubblicò Dalla zona del fuoco di paglia, un durissimo reportage fotografico dalla Cambogia, con cinici marine americani che sfogliano Playboy davanti ai cadaveri dei musi gialli o fumano ghignando fra bambini insanguinati.

Ma di nuovo, non è il Mekong, è il fiume Reno, dietro casa. Il falso in quel caso era esplicito, dichiarato; e un altro grande guru dell’epoca, Lanfranco Colombo, titolare del Diaframma, prima galleria europea dedicata alla fotografia, commentò indignato: “è una vergogna scherzare su queste cose con immagini inverosimili”.

VidoniIrlanda1

"Roger Walker" (Bruno Vidoni), Finto reportage sull'Irlanda del Nord, 1973, annotazioni dell'autore. © eredi Vidoni

Inverosimili? Bene, scattò la vendetta. Vidoni radunò gli amici e produsse il finto reportage irlandese. Un’amica viaggiatrice portò con sé le foto in Inghilterra e da lì le spedì a Colombo in una busta con un bel francobollo britannico, da parte di un certo Roger Walker, fotografo ignoto ma evidentemente talentuoso, perché quelle foto erano strepitose, coraggiose, impressionanti, colte nel vivo dell’azione.

RogerWalker

"L'odio Brucia l'Irlanda", Il Diaframma - Fotografia Italiana, aprile 1973

Il servizio, abbiamo detto, uscì sulla rivista di Colombo (ahilui, fatalità) il 1 aprile del ‘73, con il titolo drammatico di L'odio brucia l'Irlanda, e dopo poco venne ovviamente sbugiardato in ermini feroci da Gilardi: il primo dei professionisti, infierì, può essere ingannato dall’ultimo dei dilettanti.

Rispose il beffato accusando il colpo, ma con orgoglio: “D’accordo, siamo stati ingannati. Ma è filosofia da vigliacchi pensare che tutte le foto drammaticissime di questo genere sono state prefabbricate”.

Aveva intuito che le fake news non cercano di far passare qualcosa per vero, ma di demolire la fiducia che qualcosa di vero possa esistere.

Molti anni dopo, osai riparlarne a Colombo, e lui generosamente mi disse di avere perdonato la “beffa”. Ma era, appunto, molto di più.

Era un esperimento di falsificazione contestuale che precedeva di almeno un decennio quelli, molto celebrati e sicuramente molto più articolati, di Joan Fontcuberta.

Era una performance sulla vulnerabilità dei media; anzi di più, era una verifica pratica della fragilità del concetto di verità nello spazio pubblico, e del ruolo micidiale che le immagini vi giocano nel far pendere la bilancia verso la credulità.

Disse Gilardi che “tutte le fotografie sono reali, nessuna è vera” e aveva anche lui ragione, perché la fotografia abita ancora oggi, a dispetto di qualsiasi smascheramento, quel limbo del senso critico in cui, tutti lo sappiamo, può essere manipolata, ma appare sempre persuasiva.

RomoloFabbi

Romolo Fabbj (Bruno Vidoni), Battaglia nei cieli, anni Novanta. © eredi Vidoni

Eppure, in tutti i suoi falsi, Vidoni ha sempre avuto cura di disseminare indizi che avrebbero dovuto mettere in sospetto i professionisti dell’immagine e del giornalismo: che ci faceva una Fiat Seicento in una strada irlandese? E c’era davvero, a Belfast, una “Whidony Street”?

Vidoni, questo dadaista appartato, questo situazionista sconosciuto, continuò per qualche tempo a divertirsi con le “inattendibilità del vero”, fabbricò altre guerre verosimili, produsse nudi artistici dellì'Ottocento che futono presi per veri dai collezionisti e pubblicati in dotte raccolte.

NudoPseudo800

Bruyno Vidoni, Nudo pseudo-Ottocento, anni Ottanta. © eredi Vidoni

Smise quando fu sconsigliato di mettere in mostra un finto reportage sul terrorismo (con tanto di spia infiltrata), nel 1980, per il rischio che fosse preso sul serio anche quello.

Si ritirò nel ritratto, nel nudo, usò le fotografie per preparare i suoi dipinti e illustrare i suoi romanzi. La cura omeopatica del falso a mezzo di falsi non funzionò. La fotografia, che già lo aveva fatto fin dalla nascita, da allora ha continuato a mostrare ciò che non può dimostrare e, come una Cassandra al contrario, anche se dice il falso viene creduta.

Se c’è una fotografia, vuol dire che è vero, dovete fidarvi. Parola di Roger Walker.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Robinson di Repubblica il  30 agosto 2022]

L'inganno che insegna a vedere: incontro con Georges Rousse

$
0
0

Sulla banchina del porto di Deauville resto quasi ipnotizzato davanti a questo tozzo edificio color rosso vivo, su cui è dipinto un grande perfetto ettagono giallo.

Rousse1

Georges Rousse, Deauville 2022.
Ph Michele Smargiassi

Ma: dipinto? E come? E dove? La figura geometrica sembra sospesa da qualche parte nello spazio fra me e l’edificio, impalpabile, trasparente come un enorme foglio di pvc giallo.

In realtà conosco già il trucco, ma la mia mente si rifiuta di riconoscerlo. La potenza gestaltica dei miei automatismi percettivi non accetta che l’ettagono giallo non sia un ettagono nella realtà, bensì una complessa serie di forme dipinte sulla superficie dell’architettura, sulle pareti, sulle scale, sui parapetti.

Che solo se guardate da un certo punto preciso (quello segnato sull’asfalto, su cui ho posato i piedi) diventano un illusorio ettagono. La semplice irrealtà di una geometria perfetta vince la complessità delle tre dimensioni.

Rousse2

Georges Rousse, Deauville 2022.
Ph Michele Smargiassi

“Venga”, mi chiama Georges Rousse. Esito a seguirlo perché so cosa accadrà. Appena faccio un passo di lato, infatti, l’ettagono si decompone davanti ai miei occhi, si spezza, si frammenta in angoli e linee incongrue.

Ecco, ora il trucco si vedeL’incantesimo è spezzato. Le tre dimensioni tornano a materializzarsi.

Saliamo insieme la scala bizzarramente dipinta di giallo e di rosso. Rousse mette la mano in tasca e ne toglie una chiave. Mi sta donando un vero privilegio: penetrare nell’altro del mago delle forme, lo stregone che ammansisce la profondità, il domatore della tridimensionalità.

Entriamo, ed è il caos eccitante di ogni studio di pittore: secchi di vernice colorata, stracci sporchi, materiali disordinati. Ma Rousse è un pittore?

No. Nn solo, non principalmente. Siamo al festival Planches Contact, Normandia, diretto da Laura Serani, uno dei festival di fotografia più affascinanti che abbia mai frequentato. Rousse è stato invitato come fotografo "in residenza", cioè incsricato di produrre un opera specifica per il luogo.

Perché quella, la fotografia, è la forma finale che prendono le sue opere. Dopo una gestazione che però coinvolge il disegno, la pittura, e insomma la visione in tutte le sue forme.

Parigino settantacinquenne, “collezionista di luoghi”, da quarant’anni Rousse sconcerta i visitatori delle sue mostre, che non di rado se ne vanno senza aver capito bene quel che hanno visto.

Hans_Holbein_the_Younger_-_The_Ambassadors_-_Google_Art_Project

Hans Holbein il giovane, Gli ambasciatori, 1533 ca. Londra, National Gallery

Rousse è un anamorfico: ovvero produce immagini che possono essere comprese solo se viste da un unico, speciale punto di vista.

Nella tradizione degli Ambasciatori di Holbein, per capirci, con quel teschio che se non ti metti in ginocchio in basso a sinistra a guardarlo di sbieco, sembra un incongruo osso di seppia che sfigura un bel ritratto.

Rousse fa questa cosa, ultimamente, con gli edifici. Soprattutto interni di edifici. Dipinge su pareti, soffitti, pavimenti, e su tutti gli oggetti che ci stanno in mezzo (scale, porte, parapetti...) figure geometriche regolari, che nella realtà non lo sono, ma lo diventano, come dicevo, se guardate da un solo punto di vista. Poi le fotografa da quel punto di vista.

E ci vuole molto, davvero molto sforzo per costringere il nostro apparato percettivo a convincersi che il disco nero che vediamo non è stato dipinto sulla superficie della fotografia, né su un pannello trasparente messo tra la fotocamera e l’ambiente, ma proprio lì, sulle pareti, sui pavimenti e soffitti eccetera. E ovviamente non è un disco.

Ora, per esempio, siamo dentro quello che era una volta lo Yacht Club di Deauville. Ancora prima, era un bunker del Vallo Atlantico, seconda guerra mondale, poi sopraelevato e diventato luogo di incontro sociale. Poi abbandonato, ora pare destinato alla demolizione.

Mi mostra il lavoro ancora non finito: nella sala interna, una serie di grandi quadrati (che ovviamente appariranno quadrati solo quando saranno fotografati) di diversi colori. Il logo del festival. È un privilegio: vedo l’opera incompiuta, è il modo migliore per capire come nasce.

Rousse4

Georges Rousse, Deauville 2022, schizzo preparatorio. © Georges Rousse

Mi spiega come procede. Prima cosa, deve innamorarsi di un luogo. A Rousse piacciono quelli negletti e fatiscenti, decaduti da un passato a volte glorioso, destinati a scomparire.

Gli piace dare loro l’ultima occasione di apparire sfolgoranti agli occhi del mondo che non li vuole più, che li getterà via. O li trasformerà in altro. Li perlustra, ne controlla la luce, i volumi; preferisce e cerca spazi complessi, non semplici cubi vuoti ma pieni di oggetti, angoli, scale.

Poi, sceglie una porzione di quello spazio, un punto di vista. Lo fotografa. Poi immagina le figure che vi appariranno. All’inizio erano figure umane, poi via via sempre più geometriche e semplici (a volte, sono invece complicate texture, o addirittura carte geografiche). Sulla base della prima fotografia comincia a disegnare degli schizzi, sovrapponendo la piatta figura scelta al disegno prospettico.

Poi arriva il momento difficile. Come trasferisce il disegno sull’ambiente tridimensionale? Con una proiezione? “Niente affatto”, sorride lui, mite piccolo affabile. “Piazzo la macchina di grande formato sul treppiede. Nel punto di vista che ho scelto. Sul vetro smerigliato, individuo e segno i punti chiave della figura”, che chiama repéres. Poi, li detta letteralmente ai disegnatori, che seguendo le sue istruzioni li fissano sulle pareti, sul pavimento. Infine, la figura viene dipinta.

A Deauville, i visitatori del festival hanno la grande opportunità di vedere l’illusione ottica dal vivo, e di rendersi conto in un attimo di quello che faticosamente ho cercato di spiegare a parole. Tutto questo ora si potrebbe realizzare senza molta fatica con i software di ritocco. Ma per Rousse allora “sarebbe lavorare sulle immagini, non più sullo spazio reale”.

Gran parte degli edifici che Rousse ha utilizzato non esistono più. Spesso ha dovuto lottare contro il tempo per dipingerli e fotografarli poche ore prima dei demolitori.

Dunque, le sue mostre sono fatte solo di immagini che non possono essere “smascherate” con un sopralluogo. Rousse, però così lei è un incantatore. Un grande artista del trompe-l’oeil. Sorride e scuote la testa: “Io non inganno nessuno. Fotografo quel che c’è. È il vostro occhio che si inganna da solo”.

Mi tornano in mente le opere di un altro artista, Jan Dibbets, che nelle sue Perspective Corrections lavorava proprio sull’inganno della prospettiva lineare, che ogni fotocamera include nel suo meccanismo di registrazione del reale. La prospettiva rinascimentale (che un grande iconologo come Panofsky definì “forma simbolica”) è una costruzione culturale, artificiale, convenzionale: ma così introiettata nel nostro inconscio visuale da sembrarci naturale.

Bene, Dibbets ne svelava l’ambiguità: tracciava un trapezio su una parete, poi piazzava la fotocamera nel punto preciso in cui la convergenza prospettica prodotta dalla fotocamera compensava la divergenza dei lati della figura, che nella fotografia appariva dunque un quadrato perfetto.

Rousse5

Georges Rousse, Deauville 2022. © Georges Rousse

Rousse fa forse la stessa cosa, oppure va oltre? Provo allora a insistere: lei fotografa uno spazio tridimensionale, ma lo annulla come tale, ne contraddice la profondità, trasformandolo in una superficie bidimensionale.

Mi guarda con un lampo negli occhi, tipo è qui che ti volevo: “Ma non è proprio questo che la fotografia fa sempre? Ridurre le tre dimensioni a due? La fotografia fa questo, riduce la realtà. Quando guardo il reale attraverso l'apparecchio fotografico, sono obbligato a tenere conto delle deformazioni dell'obiettivo, della prospettiva prodotta dall'apparecchio. Lo stesso deve fare lo spettatore”.

Ecco perché Rousse è un fotografo a pieno diritto. Come lo fu l’inventore della fotografia, o almeno ritenuto tale, il signor Daguerre: che, prima di macchiarsi le mani con i sali d’argento, se le impiastricciava di colori a olio, ed era un imprenditore dell’illusionismo: con i suoi diorami, dipinti appunto in due dimensioni, attraverso trucchi di luce, convinceva gli spettatori paganti di trovarsi di fronte a uno spazio tridimensionale.

E forse non tutti sanno che, ritiratosi a godere della sua pensione onorifica, senza più occuparsi di fotografia, Daguerre tornò a disegnare trompe-l'oeil nella chiesa parrocchiale del villaggio in cui si era rifugiato. Diciamo che in qualche modo Rousse chiude il cerchio e torna al punto di partenza.

Rousse3

Georges Rousse
Ph Michele Smargiassi

Pochi minuti dopo, chiuso a chiave il laboratorio segreto, siamo fra le grandi fotografie della sua mostra, alla palazzina del Point de Vue, sulla spiaggia che fu cara ai grandi attori degli anni Cinquanta.

Raccolgo un po’ di coraggio e gli chiedo: perché lo fa, in fin dei conti? Per sorprendere il visitatore, per prova di virtuosismo, per gioco visuale? “Non mi interessa nulla di tutto questo, né ingannare l’occhio, né dimostrare qualche abilità. Io parto dai luoghi. Dai luoghi anonimi e dimenticati che nessuno più guarda, che nessuno più vede, e che per questo motivo potranno essere demoliti senza che nessuno protesti. Sono luoghi pieni di dignità, conservano la memoria delle funzioni a cui sono serviti, hanno una storia ma non hanno più un futuro. Ecco, prima dell’addio io cerco di dare loro un’ultima possibilità: cerco di attirare di nuovo su di loro l’attenzione della gente”. Un riscatto? “Forse, soprattutto un omaggio e un saluto”.

In effetti, ora che conosco il metodo, mi diverto a sforzarmi di vedere lo spazio di ogni sua fotografia nelle tre dimensioni originali, aggirando l’illusione della figura che sembra sovrapporvisi. E così riesco a vedere lo spazio. Sono costretto a cercarlo, ad apprenderlo, a non darlo per scontato.

E d’improvviso mi è tutto molto chiaro. Quel che Rousse forse vuol dirmi senza dirlo, è che ogni visione ha un punto di vista. Che ogni immagine dipende da un corpo che sceglie bene il suo posto nello spazio.

Ma anche che il punto di vista perfetto, a volte è quello che inganna. Che per comprendere il mondo che ci circonda, a volte è necessario rinunciare allo spalto migliore, e fare un passo di lato.